martedì 20 maggio 2014

GLI ITALIANI NELLE MINIERE



La recente tragedia di Soma, in Turchia, ha riportato d’attualità l’arduo lavoro svolto da migliaia di uomini in nazioni anche più vicine a noi: quanto accadde l'8 agosto 1956 a Marcinelle (nei pressi di Charleroi, in Belgio) è indelebile nella nostra storia. Era la miniera "Bois du Cazier", dalle sue viscere si estraeva carbone e quel giorno 262 minatori, di cui 136 italiani, rimasero intrappolati a seguito di uno scoppio. Fu la pagina più drammatica di una serie di disgrazie meno celebrate: furono complessivamente 867 i minatori italiani morti dal 1946 al 1963, senza contare tutti coloro che ebbero l’esistenza minata dalla silicosi. Risale invece all’inizio del secolo scorso, al 6 dicembre 1907, il disastro a Monongah (West Virginia); mancano dati ufficiali ma si ipotizza in 956 i minatori morti, di cui 171 italiani.


L’emigrazione italiana in Belgio (che negli anni ’60 rappresentò il 44,2% della popolazione straniera in quel paese) non fu un esodo avventuroso come talvolta lo si vuole dipingere: fu il risultato degli  accordi bilaterali tra Italia e Belgio sottoscritti fin dal 1946 tra i due governi: manodopera in cambio di carbone. Quell’anno furono 24.000 i nostri connazionali che raggiunsero la Vallonia e oltre 46.000 due anni dopo. La Federazione Carbonifera Belga, che a Milano aveva sede in piazza S.Ambrogio 3, pubblicizzò largamente,  mediante manifesti, le “condizioni particolarmente vantaggiose offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”.  

Quello fu il maggior impulso, come verso Torino per la Fiat, alla nostra migrazione che cominciò ad interessare significativamente anche le regioni meridionali; prima di allora le provenienze erano dalle campagne di Piemonte, Veneto e Friuli. Per la cronaca il primo minatore italiano in Belgio fu il valdostano Léonard Louis Bertollin (era il 1888). Proprio dieci anni fa, nell’aprile del 2004, a Creutzwald in Lorena, chiuse l’ultima miniera di carbone; gli italiani rappresentavano almeno il 50% della manodopera.  Sempre in Lorena ci sono, esattamente a Freyming-Merlebach, i due pozzi più profondi per l’escavazione del carbone.


Poche decine di km più a ovest abbiamo le Terres rouges, un territorio  collinare che copre per circa  15 km la parte meridionale del Lussemburgo;  interessa principalmente le città di Dudelange, Esch-sur-Alzette, Differdange e un piccolo lembo orientale della Francia (zona di Audun-le-Tiche). Deve il suo nome ai minerali ferrosi di cui è ricca;  é lì che per una settantina d’anni i minatori hanno scavato in lunghi cunicoli di buie miniere. Si dice che, a differenza del carbone, estrarre il ferro sia meno pericoloso; certamente lavorare di piccone per ore e ore in una miniera non deve essere stato comunque agevole per nessuno. Ancor oggi, trent’anni dopo la loro chiusura, si può immaginarlo ponendoci davanti agli ingressi di quelle gallerie. Ho voluto raggiungerne due, a Rumelange (dove c’è anche il Musée National des Mines) e a Schifflange, alla porte di Esch Sur Alzette e l’emozione che ho provato è stata forte. Buchi nella montagna dove centinaia di uomini portavano ogni giorno la loro fatica, le loro speranze e, talvolta vi lasciavano la vita.  “Onore ai minatori morti nella notte delle gallerie,  restano vivi nei nostri cuori riconoscenti” è scritto su una lapide a Rumelange mentre a  Schifflange ho trovato dei lumini e una croce costruita con due rami; ringrazio la Signora Martine Harsch- Welter per avermi fatto da guida.


Tra i tanti capitoli della nostra storia economica sarebbe davvero opportuno, come cultura e riconoscenza, dedicarne uno a questo immane sacrificio compiuto da nostri connazionali che hanno dovuto lasciare gli affetti più cari, gli amici, il paese, per costruire onestamente un futuro e portare, anche lontani da casa, onore all’Italia.
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